domenica 17 agosto 2014

L'eleganza del riccio, di Muriel Barbery

ATTENZIONE, QUESTA RECENSIONE POTREBBE CONTENERE SPOILER
Solitamente quando recensisco un libro che mi è piaciuto molto non posso fare altro che spenderci innumerevoli parole, mentre quando un libro non mi è piaciuto tendo ad essere molto più sintetica. Questo invece è un caso un po' diverso, perché il libro decisamente non mi è piaciuto, eppure credo di avere una discreta quantità di chiacchiere da mettere in ordine.
Partiamo dal presupposto che questo libro mi ha da sempre incuriosita, dapprima solo "a pelle", forse per il titolo vagamente insolito, e poi perché le opinioni che avevo letto erano talmente contrastanti che non vedevo l'ora di potermi fare una mia opinione. Eppure, non so perché, ho aspettato veri e propri anni prima di cominciare a leggerlo, forse aspettando il famoso "momento giusto", forse perché le opinioni così diverse mi rendevano incerta, non avendo idea di che cosa aspettarmi. E l'ho cominciato davvero con uno degli stati d'animo più neutri con cui abbia approcciato un libro negli ultimi anni, senza pregiudizi o aspettative, come forse mi piacerebbe poter affrontare qualsiasi lettura, solo con tanta curiosità, visto il tanto parlare che se ne è fatto.
Ebbene, qualche elemento positivo c'è, di questo devo prendere atto: la scrittura della Barbery è molto scorrevole, nonostante qualche (forse più di qualche) digressione pseudo filosofica è un romanzo che si lascia leggere  con semplicità e in pochi giorni. Inoltre, almeno in linea teorica mi piace il messaggio che il libro cerca di lanciare, una sorta di apologia della cultura, o per meglio dire un omaggio alla cultura, all'arte e al bello come possibilità di salvezza e riscatto (certo, per chi abbia masticato anche solo un po' di filosofia in maniera decente a scuola non risulterà un'idea poi così innovativa e sconvolgente, ma apprezzo il tentativo quantomeno). Insomma, riconosco la nobiltà dell'intento, apprezzo decisamente meno il risultato finale, poiché questo messaggio cambia connotati, si trasfigura e si veste di autoreferenzialità e di pienezza di sé.
Protagoniste di questo romanzo sono due figure femminili surreali ed estremamente spocchiose ed irritanti: la giovanissima, intelligentissima, ricca Paloma, ragazzina dal quoziente intellettivo a suo dire superiore alla media, stanca di una vita in mezzo alla monotonia, inferiorità e mediocrità della sua famiglia, intenzionata  a suicidarsi e dare fuoco al suo appartamento il giorno del suo tredicesimo compleanno, autrice di un diario colmo di "pensieri profondi"che di profondo hanno solo la capacità di giocare con le parole per costruire immagini di fumo, prive della minima sostanza. E poi c'è lei, Renée, la portinaia del palazzo in cui vive Paloma, una donna dall'immensa cultura che si crogiola tormentando il lettore con il suo sfoggio di istruzione, cultura, snobismo e senso di superiorità nei confronti di chiunque abbia avuto la fortuna di nascere in una famiglia agiata, una donna che per tutta la vita cerca di nascondere la sua cultura, di non mostrarsi per quello che è, fingendosi sciocca agli occhi di tutti i condomini, che in quanto ricchi devono per forza essere stupidi e ignoranti. Insomma, una donna che con la cultura si è costruita dei paraocchi enormi, e che dimostra come "cultura"non sia minimamente sinonimo di "intelligenza".
In mezzo a questo dipanarsi di autocompiacimento e sfoggio di cultura fine solo ad innalzarsi un piedistallo da cui osservare con aria di superiorità chiunque, si innestano innumerevoli riflessioni filosofiche da due lire, pesanti per chi non mastica la materia, inutili e superficiali per chi invece la conosce almeno un po'. E dopo un centinaio di pagine praticamente prive di trama, quando il lettore ha avuto pienamente modo di sviluppare una totale antipatia per queste due donnine, ecco che la storia si va ad incagliare nella cosa più banale che potesse capitare, e lo fa nel modo più banale possibile: un uomo bello, ricchissimo ma intelligente, fine, acculturato, educato, gentile, si trasferisce proprio in questo palazzo, stringe amicizia con Paloma, cita Tolstoj davanti a Renée e, grazie alla sua reazione sconvolta (non so voi, ma io sentendo citare l'incipit di Anna Karenina al limite sorrido, di certo non perdo per un momento tutte le mie facoltà intellettive) comprende quale essere magnifico e superiore lei sia, e la invita a cena. Non contenti di questa piega così rosea e scontata, intuibile fino dalle prime righe della comparsa in scena di Ozu, la Barbery, forse in preda al panico non sapendo più come dipanare i fili della matassa, opta per un finale estremo, che le tolga ogni responsabilità. Se ne lava le mani, insomma.
No, decisamente questo romanzo non mi è piaciuto. E di certo non perché mi infastidiscano o trovi pesanti le digressioni artistiche o filosofiche, o perché non apprezzi opere d'introspezione e praticamente prive di trama (anzi, se scritte bene sono probabilmente quelle che preferisco). Piuttosto trovo che, a prescindere da quanto abbia trovato odiosi i personaggi o da quanto banalotta mi sia sembrata la poca trama, il messggio di fondo di questo romanzo sia terribile: cultura e arte come elemento caratterizzante di una elìte superiore, spocchiosa e arrogante, chiusa. Insomma, Paloma e Renée, in qualche modo, finiscono per ricadere nella pochezza e nella ristrettezza di vedute di cui per tutto il romanzo si lamentano, e ciò è aggravato dalla loro convinzione di essere comunque superiori,  migliori, grazie alla loro presunta intelligenza e cultura.

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